Mangiamo per nutrirci. Mentre lo facciamo attiviamo il gusto, l’olfatto, la vista, il tatto, l’udito: viviamo un’esperienza sensoriale completa, appagandoci. Mangiamo per emozionarci; mangiamo perché il cibo è socialità, meditazione, scoperta.
Il cibo come prodotto culturale
Il cibo è scoperta perché indagando su di esso abbiamo la possibilità di scoprire chi siamo, di sintetizzare processi lunghi secoli in cui si intrecciano storia, tradizioni, contaminazioni, riti e saperi.
Il cibo deve essere dunque interpretato come prodotto culturale, elemento dell’identità individuale e collettiva, fonte di informazioni rispetto alle dinamiche di integrazione e scambio fra popoli, tradizioni, usi diversi.
«le cucine sono lo specchio dei popoli […] amano mescolarsi e confondersi» (Montanari 1997)
In tal senso, la cultura alimentare della Sicilia interna è metafora delle numerose dominazioni del mediterraneo e sintesi della formazione della cucina europea: conserva infatti l’impronta dell’eredità greco-romana, le tracce dell’influsso arabo, e i successivi apporti del modello germanico importato dai normanni.
E se il mediterraneo è stato il centro del mondo – ponte fra culture e scambi commerciali – a distanzi di lunghi millenni, nell’entroterra siciliano, in un antico e vivace borgo dei Nebrodi arroccato a 1.120 metri d’altitudine, si conservano ancora quelle tradizioni alimentari che, seppur attraversate da rielaborazioni e adattamenti, sanno essere resilienti, donandoci l‘opportunità di comprendere le dinamiche storiche che hanno determinato la cultura alimentare siciliana.
Troina, l’antico borgo siciliano in cui la cucina è resiliente
Troina è uno dei comuni più alti della Sicilia in cui “la formidabile cima sembra sfidare le nubi […] le viuzze che vi serpeggiano sembrano sentieri di capre, tra casupole che hanno dislivelli paurosi”. Con queste parole il celebre scrittore Federico De Roberto descriveva il borgo di Troina, che tutt’ora rappresenta una terrazza panoramica da cui è possibile ammirare l’Etna, il golfo d’Augusta e i Monti Nebrodi.
Un territorio che per la sua posizione strategica di confine – non solo geografico ma anche culturale – tra il Val Dèmone, le valli del Dittàino e il Simeto, fu sempre considerato «come uno dei capisaldi irrinunciabili della Sicilia interna» (Pispisa 1994) e che, seppur non molto fertile, è destinato da sempre alle attività agricole e dell’allevamento, in passato caratterizzato da numerosi mulini ad acqua.
La maggiore risorsa ambientale ed economica della comunità è stata da sempre rappresentata dal bosco. Nel bosco infatti pascolavano le bestie, si raccoglieva la legna e si produceva il carbone, si allevavano i maiali, si raccoglievano (e si raccolgono) funghi, noci, e castagne.
Tale patrimonio boschivo, che non è solo risorsa economica ma anche luogo culturale e rituale della comunità troinese, fu donato alla città dal Conte Ruggero che fece di Troina la capitale del regno.
Fu in quel periodo storico – a partire dal 1061 – che Troina acquista un ruolo di rilevante centralità: la dominazione normanna segnò infatti profondamente l’assetto sociale ed economico del centro Nebroideo.
Prima della dominazione normanna, la città conosce un lungo periodo di prosperità in età greco-romana. Ma i secoli successivi alla dominazione normanna, non furono felici. La città fu rasa al suolo da Federico II di Svevia (1233), seppur la distruzione non dovette essere totale come dimostra la presenza di una rinnovata economia fiorente in età angioina. Successivamente fu dominata dagli aragonesi, poi venduta al nobile Matteo Alagona, riscattata da Martino I che la dichiara Civitas Vetustissima, sottoposta alla signoria nel ‘400, venduta una seconda volta per fare cassa ma subito riscattata.
Colpita dalla peste nel 1575, per tutta l’epoca moderna Troina fu amministrata da un ceto di notabili composto dalla piccola aristocrazia di giuristi, notai e monaci.
Cultura alimentare nella Sicilia interna: Troina
La breve disamina delle principali vicende storiche che hanno interessato la comunità troinese, permette di spiegare le origini della cultura alimentare di Troina, borgo di montagna della Sicilia interna. Cultura alimentare che è figlia dell’incontro tra la tradizione mediterranea del grano e la tradizione nordica della carne: conserva le tracce dell’eredità greco-romana, l’influenza araba e i successivi apporti germanici veicolati dai normanni.
Queste tradizioni appaiono sintetizzate nella vastedda cu sammucu, prodotto tipico per eccellenza di questo centro. L’impasto è lavorato con farina di grano duro e strutto, e la farcitura è composta da tuma e salame. Ma a dare maggiore risalto all’influenza culinaria nordica sono i fiori di sambuco, pianta utilizzata tra le popolazioni germaniche.
Se l’impiego della farina di grano duro testimonia le origini mediterranee e quello dei derivati del maiale e dei fori di sambuco, le influenze nordiche, a rimarcare ulteriormente l’intreccio tra queste due culture distanti e contrapposte, è l’usanza di preparare tale focaccia in occasione dei festeggiamenti primaverili dedicati al Santo Patrono della città, che rappresenta una delle processioni dafnoforiche di tradizione mediterranea.
Il grano alla base della cultura alimentare siciliana
La cultura alimentare di Sicilia è stata fortemente segnata dal grano, «pianta di civiltà» per i popoli mediterranei, permeando tuttora il modello gastronomico di questa terra.
La panificazione
La farina era principalmente destinata alla produzione del pane (che in Sicilia è sempre stato di frumento), l’alimento per eccellenza alla base della dieta delle classi subalterne del passato che lo consumavano sia nell’ alimentazione ordinaria che rituale e festiva.
La buona riuscita del pane dipendeva dalla bravura della massaia, ma anche da forze soprannaturali a cui si rivolgevano preghiere, scongiuri, gesti e tabù. E questa dimensione sacra del pane veniva conservata anche successivamente alla produzione dello stesso: sempre invocato come “dono di Dio”, non poteva essere capovolto perché significava voltare le spalle al Signore; poteva essere tagliato solo dopo aver segnato sulla sua superficie una croce col coltello e il taglio doveva avvenire sempre con la mano destra; se cadeva a terra veniva raccolto e baciato.
La panificazione è stata un’attività di sperimentazione gastronomica da cui sono nati: i cudduruna di pani, realizzati friggendo l’impasto del pane in attesa di lievitazione; la vastedda, preparata attraverso una cottura a forno aperto; u pani cunzatu o pani cull’uogghiu che non è altro che il pane caldo appena sfornato condito con olio e sale, ma anche con peperoncino, acciughe, olive ecc; i pupiddi, ovvero piccoli pani che rendevano felici i bambini. E il riuso di avanzi di pane raffermo davano vita a nuove specialità gastronomiche: u pani friutu, u panicuottu e u pani rattatu.
Le farinate
Oltre che per la panificazione, in passato il grano veniva utilizzato anche per la preparazione dei frascàtuli, una farinata a base di farina di grano duro e latte che però oggi non è più praticata in quanto si trattava di una pietanza realizzata per far fronte alla povertà.
Pasta e dolci
Infine, il grano veniva utilizzato anche per la produzione di dolci e pasta. La pasta, rigorosamente fatta in casa visto che quella industriale è arrivata nel secondo dopoguerra nelle botteghe del paese, ha assunto diverse forme e nomi: i tagghiarini, i lasagni, a pasta tappi tappi, i filatieddi, i maccarruna.
La pasta veniva condita con le verdure, con i legumi, con il latte, con la ricotta fresca, con la pancetta soffritta, con il brodo di gallina. La salsa di pomodoro veniva utilizzata solo la domenica. Nei giorni di festa, si condivano i maccheroni con sughi a base di carne, principalmente di maiale.
Il maiale nella cultura alimentare siciliana
All’arrivo dei normanni, l’alimentazione troinese era fortemente ancorata alla tradizione mediterranea del grano, del vino e dell’olio, tanto che quando i soldati del nord giunsero a Troina, spogliarono di questi beni alimentari le abitazioni dei troinesi che si opponevano alla conquista.
Il sistema culturale nordico era incentrato sulla carne – soprattutto di maiale – che svolgeva per le popolazioni celtiche e germaniche il medesimo ruolo ideologico che presso le civiltà mediterranee è, invece, assunto dal grano.
Fu, dunque, a seguito della conquista normanna che la carne di maiale – già presente nella cucina del territorio ma non incentivata – diventò uno degli aspetti caratterizzanti della cultura alimentare di diverse località siciliane dei Nebrodi e delle Madonie.
I Normanni incrementarono l’allevamento di animali, soprattutto di maiali, i quali venivano allevati dai troinesi nelle terre incolte su concessione del sovrano. Sui maiali vigeva il divieto di pignoramento perché erano ritenuti una necessità primaria della vita di ogni giorno.
A Troina fino al 1966, ogni anno a settembre si svolgeva una delle più grandi e rinomate fiere del maiale. Svariati sono i proverbi e i detti popolari che rimarcano l’importanza del maiale: cu si marita sta ccuntienti ugnionnu, cu scanna un puorcu sta ccuntienti un annu ‘chi si sposa sta contento un giorno, chi scanna il maiale sta contento un anno’; A lu puorcu si cci po’ ddiri savvuscenza, picchì mietti l’austu in agni pitanza ‘al maiale si può dare il Vostra eccellenza, perché mette il gusto in ogni pietanza’.
L’uccisione del maiale costituiva e, in alcuni casi, continua a costituire un momento fondante nell’ anno della famiglia troinese in cui partecipavano all’ evento parenti e vicini. La lavorazione della carne e la conservazione dei prodotti derivati sono frutto di secoli di esperienza, saperi e tecniche, tramandati di padre in figlio.
La carne di maiale costituisce, dunque, un valore forte nella cultura alimentare troinese che fa proprio il detto «del maiale non si getta nulla». Da esso si ricava infatti: la carne netta (cuosti, suttacuosti, cuddata, filiettu); derivati utilizzati come condimento per insaporire le vivande più povere (sciuotti, scuccinieddi, vintrisca, laddu) e perfino le ossa, dopo essere state salate, venivano impiegate in cucina per la preparazione di u rrisu cull’ossa. Le parti poco nobili del maiale venivano utilizzate per la gelatina.
Tra i derivati del maiale, il lardo e lo strutto (a saimi) si sono affermati alla base della cucina tipica troinese: lo strutto, utilizzato in alternativa all’olio che era appannaggio dei più abbienti, veniva utilizzato per friggere, insaporire, preparare i dolci, ma anche per curare le ferite degli animali. Seppur negli ultimi decenni lo strutto sia stato sostituito dall’ olio di oliva, trova ancora oggi impiego nella preparazione dei dolci tradizionali e della vastedda cu sammucu.
I dolci nella cultura alimentare troinese
I dolci – in dialetto i cuosi duci – presentano un legame di contiguità con il pane in quanto prendono origine dalla pratica di “dolcificare” il pane in occasione delle ricorrenze festive. Infatti, tutti i dolci tipici hanno come ingrediente base la farina.
I dolci tipici della tradizione locale e le varianti regionali ormai assorbite dalla cucina tradizionale sono:
- i nfasciatieddi, caratterizzano tutte le festività dedicate a San Silvestro e, più degli altri dolci, rappresentano l’identità alimentare troinese. Sono state infatti inserite nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T.), istituita dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali;
- i cudduri, i pasticciotti, i munachieddi, che caratterizzano il periodo natalizio;
- i cannola (o funnu), a pagnuccata, i chjàcchjiri, i cudduruna, i cuddurieddi, i sfinci, preparati tipicamente in occasione del Carnevale;
- i palummi cull’ova, preparate in occasione della Pasqua;
- i frucietti e curuzza, tipicamente portati in dono alle donne incinte, agli ammalati e ai parenti del morto nei giorni di lutto;
- i viscotta a llièvutu e viscotta a llatti, per lo più consumati in occasione dei pellegrinaggi e delle processioni.
In molti considerano come dolce anche il sangue del maiale cotto insieme al vino (o, in alternativa, al vino cotto di fichidindia) e condito con zucchero, cannella e mandorle tostate. Un dolce prelibato in occasione dell’uccisione del maiale!
Seppur non strettamente locali, sono ormai entrati a far parte della cultura alimentare troinese prodotti provenienti da altre aree della Sicilia come u pan’i Spagna, i cassatieddi di Aggira, u turruni, i dolci di miènnula.
I derivati del latte nella cultura alimentare troinese
Nella cultura alimentare troinese vi è un’ampia diffusione dei prodotti caseari di Sicilia dovuta all’ importanza rivestita dall’ allevamento, seppure le stringenti normative in materia igienico-sanitaria tendano a vietare i sistemi tradizionali compromettendo spesso la specificità dei prodotti.
I prodotti caseari diffusi localmente sono:
- la tuma, formaggio fresco non stagionato utilizzato come ingrediente in numerose ricette, prima fra tutte quella della vastedda cu sammucu;
- il formaggio fresco o stagionato attraverso la tecnica della salatura;
- la provola;
- la ricotta, che può essere consumata fresca per condire la pasta o farcire i cannoli, oppure fritta in padella. In passato veniva consumata calda col serio. La ricotta può essere conservata sotto sale dando vita alla “ricotta salata” propria dell’area delle Madonie oppure infornata, specifica dell’area dei Nebrodi.
Piante spontanee e coltivate nella cultura alimentare troinese
I prodotti vegetali costituivano, unitamente a pane, formaggi e maiale, una componente essenziale dell’alimentazione del passato, soprattutto delle classi subalterne ma anche di quelle più ricche.
In questa categoria figurano anzitutto i legumi, rappresentati da fave, piselli, lenticchie e ceci. Quest’ultimi vengono cucinati in occasione della Festa di San Giuseppe, oppure vengono tostati per la produzione della càlia. Dalle farine di ceci e piselli, si ricava a piciòcia. Le fave trovano invece diversi impieghi: nella cultura contadina si consumavano sotto forma di minestre, di maccu, per condire la pasta, oppure infornate.
Infine, meritano menzione le mandorle e i fichidindia. Da questi ultimi si ricava il pregiato vinucuottu destinato alla preparazione dei dolci e che in passato veniva consumato anche semplicemente immergendovi delle fettine di pane arrostito.
Fonte: Castiglione A., Le parole del cibo. Lingua e cultura dell’alimentazione a Troina, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, 2016.
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